Che spettacolo, vedere il successore di Steve Jobs sotto torchio al Congresso, interrogato da una commissione d’inchiesta. trattato alla stregua di un semidelinquente. In una nazione dove il dovere fiscale è sacro, Apple è diventata il simbolo di una perversione: le multinazionali americane, più sono grosse e redditizie, meno pagano. E’ un oltraggio per il contribuente medio lo spettacolo andato in scena il 21 maggio 2013 con riprese tv sull’audizione parlamentare. Gli americani hanno scoperto che la regina della Borsa con una montagna di cash superiore ai 150 miliardi ha pagato in alcune sue filiali un’aliquota dello 0,05%. Praticamente niente. Dell’indignazione si è fatto interprete il Senato in una seduta burrascosa come poche.
Era dai tempi della Lehman Brothers che su Capiton Hill non tirava un’aria di “critica al capitalismo pirata”. Per una volta d’accordo, democratici e repubblicani hanno bombardato di domane e di accuse il chief executive di Apple, Tim Cook. Ecco Carl Levin, senatore democratico e presidente della commissione d’inquista: “Apple ha cercato il Sacro Graal dell’elusione fiscale. Ha un comportamento assurdo, che pochi altri hanno osato adottare”. John McCain, repubblicano ed ex candidato alla Casa Bianca: “E’ una violazione scandalosa, siete i campioni dell’elusione fiscale”. Perfino l’ultraliberalista Rand Paul, beniamino del Tea Party e fautore della rivolta antitasse, ha osservato che “se un semplice manager cercasse di sfuggire al fisco come fa Apple, finirebbe nei guai”.
Le conclusioni del’inchiesta del Congresso sono sconvolgenti. Gli esperti fiscali di Washington hanno descritto la struttura societaria di Apple come “un’alchimia”, una ragnatela di “società fantasma”. L’azienda-simbolo della modernità, la protagonista delle ultime rivoluzioni tecnologiche, difronte al fisco si è comportata con una spregiudicatezza illimitata. Ha disseminato filiali nei quattro continenti, giostrando la collocazione dei suoi profitti nei paradisi fiscali offshore. Ha usato “trame e trucchi”, secondo i termini usati dai fiscalisti del Congresso. “ha superato ogni immaginazione, ha fatto prova di un’arroganza totale” si legge ancora nel rapporto.
Tra il 2009 e il 2012, l’imponibile sottratto all’Internal Revenue Service ha raggiunto i 74 miliardi di dollari. Un esempio significativo è quello della filiale Apple Operations International. La sua sede sociale è stata stabilità in Irlanda, negoziando col governo di Dublino uno sconto fiscale generoso: appena il 2% d’imposta sui prodotti. Ma per i capi di Apple neanche questo trattamento di favore era sufficiente. Sfruttando un cavallino giuridico, hanno deciso di pagare molto meno. Poiché gli Stati Uniti tassano le società laddove hanno la loro sede sociale, mentre l’Irlanda le tassa in base al luogo effettivo in cui vengono controllate e gestite, Tim Cook ha gestito tutti i conti di Apple Operations International dal suo quartier generale californiano (a Cupertino, nella Silicon Valley), ma ha “spostato” con una semplice operazione di contabilità virtuale nella società di diritto irlandese ben 30 miliardi di fatturato tra il 2009 e il 2012. Risultato: per gli irlandesi quella società era americana, per il fisco americano era irlandese. Così quella filiale ha operato in un regime di esenzione fiscale assoluta. Un’altera filiale estera è stata usata per concentrarvi profitti delle vendite estere di iPhone, i Pad, MacBook. Ha registrato 22 miliardi di dollari di utili. Tasse: 10 milioni, ovvero un’aliquota dello 0,05%. Una vergogna di cui il senatore Levin si è fatto interprete cosi: “Le imposte che Apple ha eluso sono finite sulle spalle di altri contribuenti: famiglie di lavoratori e piccole imprese. E tutto questo accade mentre il deficit pubblico raggiunge livelli allarmanti”.
L’americano medio si sente gabbato e offeso in uno dei suoi doveri fondamentali di cittadino, quello fiscale. Assume un significato nuovo quella montagna di cash di cui Apple andava orgogliosa, i 150 miliardi che ne fanno l’azienda più “liquida” del pianeta e della storia del capitalismo. I due terzi di quel tesoro sono custoditi all’estero, in paradisi offshore. Quando Apple ha deciso di remunerare meglio gli azionisti, ha preferito indebitarsi emettendo obbligazioni anziché far rientrare una parte di quei capitali: non sia mai detto che la regina dell’economia digitale debba pagarci le tasse…
Bibliografia: Rete Padrona. Amazon, Apple, Google & co. Il volto oscuro della rivoluzione digitale.
Federico Rampini. Feltrinelli Saggi. Novembre 2015.